Venerdì, 08 Maggio 2009 11:46

BERLUSCONI NON Ė BALTHUS, COME NOEMI NON E’ LAURENCE

 

 

Strana storia quella che i media ci riferiscono in questi giorni, che me ne ricorda per analogia un’altra, in cui mi imbattei qualche anno fa in occasione di un incontro con Alessandro Bianchi, allora Rettore dell’Università Mediterranea.

 

Entrato da via Zecca nell’atrio della deliziosa palazzina liberty che, affacciata sul lungomare, ospitava il Rettorato dell’Università Mediterranea, e salito al suo secondo piano, una volta nello studio del Rettore, la vista non potè non essere attratta da una grande riproduzione de “Le Chat de la Mèditeranèe” di Balthus: faceva sfoggio di sé nella parete di fronte alla scrivania, a destra della finestra che dà su via Giulia, sì da risultare ben visibile a chi accedeva alla stanza dalla segreteria. Bianchi amava molto quest’opera, tanto da riprodurla finanche sui suoi biglietti da visita. Il quadro mi intrigò e mi addottorai.

 

Il quadro, che Balthus compose quasi per scherzo nel 1949 e donò con regale nonchalance al proprietario del ristorante La Méditerranée di place de l’Odéon in Parigi che lo appese all’entrata del locale, è suggestivo e misterioso: per l’intrigante, centrale e torreggiante figura felina in divisa di pescatore marsigliese e con lo sguardo da gangster; per il palo che divide in due la composizione, come a separare il vissuto del dott. Jeckyl da quello di mister Hyde; per la figura di ragazza che si allontana su di una piccola imbarcazione con un gesto di addio.

L’immagine di questa poco più che bambina, che fugge da qualcosa che l’annoia più che spaventare, è l’ideale trait d’union con i fatti d’oggi.

 

La storia di questo quadro-insegna si è conosciuta in seguito al racconto fatto da Francois Gilot, compagna di Picasso, su di una cena d’estate sul molo del porto di Golfe-Juan nel 1947. Mentre la viscontessa di Noailles, che due anni dopo avrebbe suggerito a Balthus l’idea del quadro, rievocava l’epoca d’oro del surrealismo, il pittore non aveva occhi che per Laurence Bataille, la quasi impubere ragazza del quadro. La giovane, conosciuta da Balthus in quella occasione, gli sarebbe stata compagna fino al 1951. Era figlia di Sylvia e George Bataille: George era uno scrittore amico di Pierre Klossowski, fratello maggiore di Balthus, la cui madre Baladine alla morte di Klossowski era divenuta compagna del poeta Rainer Maria Rilke; Sylvia, attrice con la regia di Jean Renoir e amica di Picasso oltre che vicina al Goupe d’Octobre e al poeta Jecques Prevert, in seconde nozze avrebbe poi sposato lo psicanalista Jacques Lancan. Laurence, dopo la fine della sua storia con Balthus, conclusa un’esperienza teatrale, avrebbe ultimato i suoi studi in medicina e abbracciato la psicanalisi di tipo lancaniano.

 

Come accaduto a Noemi, anche allora a Laurence toccò in sorte di attirare l’attenzione di una persona di maggiore età: due storie analoghe, anche se non sovrapponibili, ma con grandi differenze di contesto e ambientazione.

Il racconto di una cena d’estate sul molo del porto di Golfe-Juan, immortalato da Balthus ne  “Le Chat de la Mèditeranèe”, ci parla di un particolare ambiente intellettuale e del suo relativo clima culturale, che dal quadro traspare in filigrana e che in questo si sente quasi respirare: sullo sfondo del mare Mediterraneo, i cui odori sembrano accompagnare ogni situazione, oltre ai protagonisti della serata, passano come presenti e vivi anche Picasso, Prévert, Renoir, Lancan, Breton; passa la storia europea della cinematografia, delle arti, della letteratura, della filosofia, della medicina e dell’impegno degli intellettuali.

 

Cosa ci dice invece il resoconto mediatico della storia di italiche ninfette, del loro rapporto con il potere, delle loro famiglie, dei disvalori loro trasmessi? Quali atmosfere evoca, se non quelle di lussuosi postriboli e, al meglio, la traccia tematica del tormentato Humbert e della sua Lolita? La ricchezza intellettuale può a volte compensare la miseria morale, come se la “sospensione del giudizio morale” che adottiamo per l’opera d’arte si estendesse anche al suo autore; lo stesso non si può dire per la ricchezza tuot court, che mai redime la miseria morale.

Una misera storia di ninfette alla Nabokov, insomma, e niente più.    

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