Stampa questa pagina
Sabato, 14 Febbraio 2009 15:13

LA FILOSOFIA DELLE NEUROSCIENZE - INCONTRO CON WALTER FREEMAN

Walter J. Freeman qualche anno fa ha soggiornato un paio di giorni a Reggio: docente di neuroscienze al Dipartimento di Biologia Molecolare dell’università californiana di Berkeley, gli è stato consegnato il Premio Calabria. Il giorno successivo alla sua lectio (“Elaborazione dell’informazione ed emergenze dei significati nelle funzioni cognitive del cervello umano”) ho avuto modo di incontrarlo: quanto di seguito riportato è una sintesi della nostra conversazione.

VITALE - In una visione deterministica delle vita, se come uomini ci chiedessimo chi siamo, si potrebbe rispondere che sostanzialmente siamo il nostro DNA, il nostro patrimonio genetico, in cui sono riportate le istruzioni per la costruzione sia della nostra fisicità che, in parte, della nostra psichicità: nei geni, infatti, è accumulata non solo la memoria genetica di quella straordinaria evoluzione che dagli esseri viventi elementari ha portato alla straordinaria complessità dell'uomo, ma anche tutte le informazioni relative ai comportamenti istintivi tipici della nostra specie [nel regno animale istinti e comportamenti costituiscono l'etica specie-specifica (ethos = comportamento, abitudine)]. So che lei, prof. Freeman, non è pienamente d’accordo con questa impostazione del problema.
FREEMAN - Sono “geneticamente” in disaccordo con qualsiasi eccessiva semplificazione, come quella appena riportata. Infatti, come per gli animali è necessario un apprendimento (che l'etologo Konrad Lorenz ha definito epigenetico, ossia sovrapposto al gene) perché si concretizzino le istruzioni genetiche relative ai comportamenti (ad es. l'abilità manuale e i comportamenti sociali dello scimpanzé, o il volo degli uccelli e il canto dell'usignolo); così anche per l'uomo le potenzialità istintive determinate geneticamente (ad es. l'uso del linguaggio o il darsi regole di convivenza e relazione) hanno l'intrinseca necessità di essere rafforzate e indirizzate (soprattutto con l'allevamento intrafamiliare) per potersi attualizzare.
VITALE - Mi sembra che le posizioni non siano poi così distanti. Ora, posto che anche lei concorda sulla sostanziale involontarietà (ossia sulla loro determinazione genetica o educativa) di molti prodotti mentali, cosa allora ci differenzia in maniera sostanziale dagli altri animali se, in buona sostanza, fin anche il concetto di bello e di buono è iscritto nel nostro patrimonio genetico?
FREEMAN - L'uomo è l'unica creatura sulla terra a non essere una semplice espressione del suo DNA e dell’apprendimento epigenetico: è solo nell'uomo che quest’ultimo si arricchisce di due valenze aggiuntive.
VITALE - Anticipo la sua risposta, se mi permette. Una è certamente la memoria "non genetica", ossia la cultura, ovvero tutto ciò che ha prodotto fin ora la mente umana: questa enorme e crescente massa di informazioni non è contenuta nel genoma umano e ha bisogno di essere conservata artificialmente (su supporti una volta lapidei, poi cartacei, oggi anche magnetici) perché avvenga la sua trasmissione intergenerazionale. All’uopo Richard Dawkins ha coniato nel 1976 il temine "meme" per indicare un'ipotetica unità di trasmissione culturale (analoga al gene, unità di trasmissione genetica): in ogni meme vi sarebbero concetti base (da quelli relativi alla ruota e al fuoco, a quelli contenenti i concetti di illuminismo o Trinità, fino agli ultimi inerenti alle più sofisticate recenti scoperte). Questo materiale "memetico", trasmesso di generazione in generazione per mezzo soprattutto dell'educazione extrafamiliare, fa anch'esso ormai parte integrante della nostra specie a guisa di quello genetico, sì che possiamo considerarci abissalmente lontani dal nostro progenitore di 50.000 anni fa, l'homo sapiens sapiens, pur condividendo con lui la totalità del nostro DNA. Mi parli dell’altra valenza aggiuntiva.
FREEMAN - La seconda è l'autocoscienza, la coscienza di sé, che consente di considerarsi come un punto in movimento nella storia, con un passato da ricordare e un futuro da costruire: il che permette di ritenersi liberi di operare scelte che possono anche prescindere dall'etica specie-specifica determinata geneticamente. Negli animali, pur essendo a mio avviso presente una qual forma di consapevolezza, non vi è quella del sé, sviluppata solo negli uomini: questa è necessaria per la volizione.

* * *
VITALE - Siamo venuti quindi al dunque: lei attribuisce alla libertà di scelta un valore che altri neuroscienziati non danno (addirittura alcuni affermano che il libero arbitrio sarebbe un’utopia)
FREEMAN - I principi del determinismo genetico e ambientale hanno una posizione centrale nel dibattito in cui si contrappongono natura e cultura, ovvero nell’annosa disputa che mira a stabilire se un essere umano si comporta in un determinato modo perché è nato ed è stato allevato in una particolare maniera. Il lato debole di tali principi è che questi escludono la possibilità che una persona possa offrire un proprio personale contributo; il loro presupposto è che tutte le nostre decisioni ci vengano di fatto imposte da circostanze già date.
VITALE - Il filosofo Baruch Spinoza nel XVII secolo sostenne, anticipando le teorie deterministiche, che l’uomo è a tal punto sballottato dalle circostanze che è come se fosse una pietra rotolante da un pendio, incapace di dare un indirizzo e un fine alla sua corsa. Spinoza aggiunse che l’unica differenza evidenziabile tra la pietra e l’uomo è che questi ha l’illusione di aver scelto ciò che fa.

FREEMAN - Lei sa bene che la mia posizione, con tutto il rispetto che pur si deve a Spinoza, non è questa: noi prendiamo effettivamente delle decisioni, anche solo nel tentativo di evitarle o di giustificarle. Non siamo come le pietre rotolanti: ogni nostra scelta è profondamente personale e sorge dall’intera esperienza del passato contenuta in ognuno di noi. Questa non è una collezione statica di ricordi, bensì una trama in cui si intrecciano le influenze, i desideri, le avversioni e i talenti che costituiscono il significato di tutto ciò che facciamo. Le scelte sono quelle che si operano in quei punti di ramificazione con cui si disegna e procede la vita di tutti noi.

VITALE - Scelte. Non le sembra che, scremate quelle impossibili per la ragione umana e quelle incompatibili col nostro personale vissuto socio-professionale e familiare-affettivo, ove sia ancora possibile una scelta, che potrebbe così essere già data, si potrebbe usare il sistema di lanciare in alto una monetina e vedere se esce testa o croce? Statisticamente, alla fine di una lunga serie di scelte casuali tra due opzioni plausibili, la percentuale complessiva di errore sarebbe in parte sovrapponibile al caso in cui a ogni scelta avessimo dedicato gran tempo e attenzione operandola con tutto il nostro raziocinio.

FREEMAN - Non è peregrino questo pensiero: vi è una corrente di pensiero che postula un posto al sole solo per il caso e non per la scelta. Ma tra determinismo da un lato e casualità dall’altro l’immagine dell’uomo che ne deriva è troppo riduzionistica. Pur ammettendo l’importanza del caso, la capacità di scegliere è una proprietà essenziale e inalienabile della vita umana.

* * *

VITALE - Certamente: senza la libertà di scelta cadrebbe il principio della responsabilità personale. Eppoi è dal concetto di libertà che discendono tutte le considerazioni etiche riguardanti il diritto o meno al suo uso. Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano. Torniamo al suo ultimo lavoro.

FREEMAN - Nel mio libro (n.d.r. “Come pensa il cervello”, Einaudi 2000) mi sono posto tre obiettivi. Il primo è quello di far comprendere i meccanismi cerebrali che consentono ai neuroni di costruire le alternative tra le quali scegliamo. Il secondo è spiegare che cosa avviene nell’organizzazione dei neuroni nel momento delle scelte. Il terzo e ultimo è spiegare in termini neurali la natura e il ruolo della consapevolezza.

VITALE - Su quest’ultimo punto mi consenta una certa dose di scetticismo.

FREEMAN - Gliel’avrei consentita fino a qualche anno fa. Oggi comincia a essere possibile analizzare e comprendere le funzioni cerebrali in termini immediatamente compatibili sia con i dati rilevati dalle neuroscienze sia con le intuizioni, i pensieri e i qualia con cui viviamo la vita quotidiana.

VITALE La interrompo solo un attimo. Cosa sono i qualia?

FREEMAN - Qualia è un termine con il quale i filosofi indicano le esperienze del tutto personali con cui viviamo un fatto sensoriale: visivo come il rosso del tramonto, olfattivo come il profumo di un fiore, acustico come il canto di un uccello. Qualcuno pensa, sbagliando, che i qualia non siano accessibili da parte degli scienziati né meritevoli di un’indagine scientifica.

VITALE - Bene, andiamo avanti.

FREEMAN - Negli ultimi anni, dicevamo, si è vista la nascita e lo sviluppo di due nuovi settori scientifici: quello delle neuroimmagini, che rende possibile l’osservazione e la misura dell’attività dei neuroni anche nel corso di azioni quotidiane; quello della dinamica cerebrale non lineare, ossia dell’auto-organizzazione dei sistemi complessi (oggetto di indagine da parte di chimici, fisici, matematici e biologi) e delle infinite nuove configurazioni di attività che ne derivano.

VITALE - Siamo, pertanto, nell’ambito di studio dei sistemi caotici. Ma tra caso e caos, a parte le relazioni anagrammatiche, mi sembra che ce ne possano essere ben altre.

FREEMAN - Non è così se lei considera i termini in senso matematico. Oggi riconosciamo queste configurazioni di cui parlavo come manifestazione del caos, che può sembrare rumore (altro termine che la prego di non intendere in senso letterale), ma che ha un ordine nascosto e, soprattutto, la capacità di cambiare in modo rapido e diffuso, proprio come i nostri pensieri. Mentre il rumore, come il calore di una stufa elettrica, è lento da avviare e fermare; il caos è come il movimento dei corpi a un terminal aeroportuale: a ogni annuncio, le configurazioni cambiano. Prima dello sviluppo della dinamica non lineare, non era possibile distinguere tra rumore e caos.

* * *

VITALE - Andando al tema della sua conferenza, il fatto che nel cervello si producano anche scelte non obbligate né casuali comporta come corollario l’affermazione che nella stessa sede emergano obiettivi e che questi trovino una loro logica espressione in una serie di azioni mirate a uno scopo: la scelta, pertanto, implica una finalità. Inoltre, il fatto che noi si compia una scelta a sua volta comporta che noi si dia un particolare significato agli input provenienti dall’esterno.

FREEMAN - Un’attività umana fondamentale e perpetua è la ricerca del significato: questo assume una forma particolare e unica per ogni persona. Si consideri, ad esempio, un’alzata di sopraciglio: a seconda delle circostanze, di chi fa l’azione, di chi è il destinatario del segnale, dello stato d’animo e del vissuto dell’osservatore, il significato di questo segnale può cambiare anche sostanzialmente. I significati non sono pensieri o convinzioni, ma una trama fatta di entrambe le cose.

VITALE - Se ho ben capito, il segnale, come anche un qualsiasi mezzo o medium, non ha significato di per sé: un libro, ad esempio, per il suo autore ha un significato che sarà diverso da quello che gli attribuiranno i lettori.

FREEMAN - Aggiungo che noi non scopriamo il significato così come scoviamo per serendipidà animali e minerali insoliti grazie al loro impatto sui nostri sensi.

VITALE - Prima di proseguire, mi chiarisca il significato di questo termine.

FREEMAN - Per serendipidà negli ambienti scientifici si suole intendere la capacità di cogliere e interpretare correttamente un fatto di una certa rilevanza che si presenti in maniera inattesa e casuale nel corso di un’indagine scientifica diversamente orientata.

VITALE - Bene, continui il suo pensiero.

FREEMAN - Il significato si crea in forme particolari e uniche dentro di noi mediante le azioni e le scelte che tutti facciamo, imparando inizialmente a vivere secondo un sistema di credenze che ci viene offerto attraverso i genitori, i compagni, i colleghi, e che dapprima cambiamo affinché ci soddisfi e poi modifichiamo affinché diventi noi stessi.

* * *

Con questa considerazione, che ci porta all’inizio dell’incontro e al concetto di apprendimento epigenetico, interrompiamo questa specie di resoconto dell’incontro avuto con Walter Freeman, ultrasettantenne girovago che trascorre, dopo una vita di ricerche medico-biologiche e ingegneristico-matematiche, oltre la metà del suo tempo in viaggi per divulgare la sua particolare filosofia delle neuroscienze.

Mentre lo accompagnavo dopo cena in albergo, mi ha confidato la sua solitudine di uomo di scienza: la sua casa è il mondo, nel quale peraltro si trovano sparpagliati i suoi ben dodici figli (sette suoi e cinque della seconda moglie). Solo uno di questi lavora a Berkeley (e comunque abita lontano da casa sua), sei sono residenti sulla costa East degli Usa, due sono in Alaska, due in Australia, uno in Scozia. L’indomani mattina avrebbe preso con sua moglie l’aereo per Roma: mentre lei sarebbe tornata a San Francisco, dov’è proprietaria di un’agenzia di viaggi, lui avrebbe proseguito il viaggio per Stoccolma.