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Lunedì, 13 Aprile 2009 07:06

MITI RITI CIBI NELLA PASQUA CALABRA

Giovedì 2 aprile è stato presentato presso il Salone dei Lampadari di Palazzo San Giorgio il volume "Miti Riti Cibi nella Pasqua Calabra" di Roberto Spinelli. La manifestazione, parte del percorso culturale Lezioni Reggine (www.lezionireggine.it), è stata curata dalla Fondazione Editrice Sperimentale Reggina, sul cui sito www.editricesperimentalereggina.it è rintracciabile il pdf del lavoro. Di seguito l'intervento di Antonino Monorchio, presidente della Fondazione.

Presentare un libro è, prima di ogni altra cosa, entrare in un mondo di idee e di fatti che introduce, nel suo dispiegarsi, a una visione antica e nuova della storia e dell'esperienza umana.

L'attualità celebrativa della Pasqua offre all'Autore l'agio di ripercorrere, in una interessante prospettiva antropologica, lo sforzo di eludere la paura della morte e di placare nei riti la coscienza colpevole che è fòmite di cultura.

C'è in tutto ciò un incontro inevitabile di empietà e bisogno di trascendenza.

Desiderio di vita e recòndito bisogno di morte. È per questo che la religiosità ha la meglio sulla fede.

Anzi, per dirla con Tommaso d'Aquino, viene messa in luce quella eccedenza di religione che si chiama superstizione.

L'ambito dell'antropologia definisce e disegna, nel discorso di Roberto Spinelli, i comportamenti che, nella religiosità popolare, promuovono la ricerca di un intervento salvifico risolutivo e drammaticamente ricercato col fine di produrre stati d'animo che alimentano la certezza soteriologica dell'intervento divino.

Non è tuttavia escluso che in tale clima non si realizzi pure quell'intromissione patente, salvifica, ma pur sempre misteriosissima e non rassicurante, che nessuno può prevedere.

Perciò, nonostante la drammaturgia talvolta cruenta, il ricorso al rito che istituzionalizza la memoria della Pasqua mantiene e custodisce in se le caratteristiche di un'attenzione vigile in timore e tremore.

Essi, i riti, finalizzati al compimento di un fine di salvezza, sono intrisi di compunta contrizione e di sentimenti di esaltata partecipazione affettiva. Anche quando la necessità di una estenuazione della forza vitale riduce, per scopi rappresentativi, la distanza fra la vita e la morte.

Mi riferisco più precisamente a quelle donne che, per essere in sintonia con la partecipazione alla passione ed alla morte di Cristo, riducono al minimo il nutrimento per apparire interpreti efficaci e verisimili del pathos funebre ed angoscioso della Settimana Santa.

Ma questo riferimento mi offre l'opportunità di ricordare, come fa Roberto Spinelli, l'intervento salutare e ristabilizzante del vescovo reggino Cardinale Gennaro Portanova mirante a contenere gli eccessi ed a castigarne la esaltazione.

Religiosità popolare, quindi, senza fanatismo. Mortificazione senza accanimenti feroci e cruenti. Solo un po' di molto umano masochismo senza sadismo autocompiaciuto e volto su se stessi.

Perciò, un recupero salvifico del messaggio evangelico che invita alla memoria della Passione nell'affidamento al Dio che salva.

Armonioso equilibrio fra religione che spinge l'uomo verso Dio e la fede mediante la quale, nell'affidamento l'uomo riceve l'aiuto di Dio in Cristo Gesù che è, per antonomasia, "autore e perfezionatore della fede".

Il grande pregio di questo libro, un piccolo libro, ma spesso i libri di poche pagine sono i più saporosi, e non é peregrino ricordare che mega BiBlioumegakakon, il pregio di questo libro è appunto un rinvigorimento di quel pathos religioso – tutti gli uomini sono, anche se il più spesso lo negano, uomini religiosi – che è il fondamento tragico dell'isolamento che aspira alla solitudine serena e ristoratrice della comunicazione.

Una tragedia che si dissolve nella salvezza della fede. Ma tuttavia, essendo anche la colpa un sentimento pervasivo ed onnipresente, tutti gli uomini hanno, in maniera cosciente o non, bisogno di soffrire.

Tutti abbiamo bisogno di essere salvati, non solo puniti. Perché la pena allevia la colpa.

Nessuno può imitare Cristo nella sua passione, e nemmeno nella sua vita. La nostra vita in Cristo è dono gratuito di Dio e nessuno può menarne vanto.

L'ascesi è stata però, da sempre, una tentazione. È per questo che si ricorreva all'impiego eccessivo di tecniche ascetiche cruente.

Siamo piuttosto richiesti di porci alla sequela del Redentore con pazienza e perseveranza: "chi dice di dimorare in Cristo deve comportarsi come lui si è comportato (Giov. 2,6).

Una sequela nell'obbedienza che distrugge l'orgoglio e produce l'umiltà della piccolezza nella quale, gratuitamente, ed in maniera assolutamente imprevedibile e sconosciuta, gli uomini ricevono la salvezza dalla schiavitù del peccato. Il mistero dell'uomo è infatti anche il mistero di Dio.

Voglio ricordare a me stesso, ed a voi che benevolmente mi ascoltate, che l'uomo è un animale simbolico. Se perde contatto con l'universo dei simboli è culturalmente morto. Non comunica più. Non ha futuro e neppure avvenire.

Non ha Dio.

Riappropriarsi dei significati nascosti ed inseriti nei simboli e vivere.

Questo mette in luce egregiamente la ricerca antropologica dell'Autore, che ci invita a riscoprire le tradizioni.

Voglio perciò ringraziare Roberto Spinelli che ci ha riportati alle nostre radici culturali ed ha dato a me l'occasione di rendere perspicuo il rapporto sempre periclitante fra religione e fede.