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Martedì, 07 Gennaio 2014 08:54

LA CONFINDUSTRIA DI CUZZOCREA

Sono trascorsi i primi 18 mesi di gestione della Confindustria reggina guidata da Andrea Cuzzocrea, dedicati soprattutto alla riorganizzazione interna dopo il commissariamento, ed è tato possibile stilare un primo bilancio. Di questo ritagliamo alcune idee forti che assumiamo a paradigma di positività: impegno per la costituzione della Zona Economica Speciale a Gioia Tauro; attenzione all'integrazione economica e sociale nell'Ara dello Stretto; identificazione nella malaburocrazia una delle principali cause del ritardo infrastrutturale. Punti programmatici sui quali è ben difficile tessere critiche data la loro palmare "necessità"; e su cui sarebbe pleonastico ricamarci sopra, dato che ne abbiamo in più occasioni riflettuto e scritto. Un po' meno convincente ci è sembrata la posizione negativa nei confronti del progetto del Water Front reggino, peraltro non giustificata con sufficienti motivazioni.


Quasi a corredo del bilancio di attività, in occasione della presenza in città della Commissione Nazionale Antimafia, Confindustria ha finalmente espresso a chiare lettere ciò che nella mente dei reggini benpensanti è ben chiaro: l'indispensabile rimodulazione dei criteri di giudizio che concorrono a determinare l'interdittiva antimafia che, così com'è strutturata, riguarda la quasi totalità delle imprese reggine. In altri termini, posto che la citata interdittiva viene posta anche in assenza di un procedimento giudiziario aperto e sulla base di una relazionalità con ambienti mafiosi che può anche non essere strutturata ma casuale o "obbligata", questa misura di prevenzione assume caratteristiche di "brutalità" tali da prostrare un'economia già asfittica ottenendo il risultato di aumentare il potere della ‘ndrangheta che si vuole combattere.

Condividendo pienamente il pensiero del presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea, ne riproponiamo alcuni significativi stralci.

Parliamo soprattutto dei criteri logico-giuridici che presiedono al giudizio nei procedimenti di competenza della Prefettura in cui viene considerata la possibile contiguità mafiosa di un'impresa. In specie quelli diretti al rilascio delle "informazioni antimafia". Esaminata la casistica giudiziaria dell'ultimo quinquennio sui ricorsi in materia promossi davanti alla sezione reggina del Tar, nella maggior parte dei casi non risulta il compimento di atti od omissioni significativi di un reale condizionamento mafioso, bensì situazioni in grado di giustificare il dubbio circa la possibilità del condizionamento.

Il criterio utilizzato, discutibile in sé, lo è soprattutto se applicato all'ambiente reggino, dove finisce inevitabilmente con l'attirare nel vortice del sospetto una parte rilevante dell'economia, essendo estremamente facile, pe chi opera in questo territorio, avere contatti con soggetti coinvolti in procedimenti penali. Occorre dunque interrogarsi sul rapporto tra l'efficacia dei metodi fin qui utilizzati per il rilascio delle informative antimafia, in funzione del contrasto del condizionamento mafioso nell'economia, e gli effetti che il loro utilizzo è in grado di determinare sul tessuto economico e su quello sociale.

Lo Stato non può, infatti, riconoscere la lotta alle infiltrazioni mafiose quale unico obiettivo della propria azione, accettando di immolare su quell'altare ogni altro interesse costituzionalmente rilevante, persino incurante delle vittime innocenti prodotte dalle proprie decisioni. Non può, in definitiva ignorare il danno collaterale: la compromissione della già fragile economia reggina. Adagiarsi sugli attuali metodi significa accogliere l'idea che l'infiltrazione mafiosa nell'economia si possa sradicare chiudendo le aziende, un po' come pensare di combattere la povertà eliminando i poveri.

Non si può trascurare di considerare, infine, i danni collaterali rispetto all'efficacia dell'azione di contrasto al fenomeno mafioso. L'interdittiva, quando è motivata da situazioni soggettive per così dire "statiche", ovvero rapporti di parentela o affinità, condizioni quindi storicizzate, si traduce in una condanna a vita all'ostracismo dal mondo del lavoro, per centinaia di imprenditori, speso colpevoli di nulla e che nulla possono fare per modificare il proprio stato di parente o affine, o per cancellare il fatto storico di avere incontrato taluno, o di essere stato segnalato, indagato o anche imputato.

E così si giunge al paradosso che l'emarginazione sociale, conseguenza dell'ostracismo dal lavoro, finisce per alimentare il fenomeno che si voleva combattere, gettando nelle braccia della criminalità tante persone cui sia stato rifiutato, senza loro colpa, l'inserimento nel mondo produttivo. Tutti, invece, dovremmo convenire che la mafia si vice combattendo l'emarginazione col lavoro, e promuovendo nel popolo il senso dello Stato: di uno Stato le cui decisioni non sono frutto di cieca autorità, che susciti ribellione piuttosto che consenso e condivisione.