Martedì, 22 Maggio 2012 09:12

LIBERTÁ E IRONIA OVVERO A LEZIONE DI GIORNALISMO DA MANZONI E CAMUS

Dell'imponente affresco manzoniano inquadriamo il confronto tra il Cardinale Borromeo e Don Abbondio, la cui mente "è tarata su un metro soltanto, quello della pelle da salvare". All'alto prelato , che afferma essere un dovere sacerdotale anteporre gli ideali alla vita ecc. ecc., il misero curato risponde che se non ce l'ha "il coraggio uno non se lo può dare".

La zoomata sull'episodio de I Promessi Sposi è illuminante se, mutatis mutandi, si trasferiscono personaggi e situazioni ai giorni nostri: in cui si osserva che, a fronte di enunciazioni di principio su irrinunciabili valori, la vita quotidiana di tanti piccoli uomini è trascinata tra varie precarietà che la rendono instabile e dipendente dai poteri.

 

Pur socialmente riprovevole e moralmente deprecabile, il sistema mentale di Don Abbondio, comune oggi quasi totalità dei comuni e "onesti" cittadini, obbedisce a una stringente logica che lo rende sotto certi aspetti "corretto", sia dal punto di vista genetico-deterministico che da quello socio-antropologico.

In altri termini, per l'uomo comune le possibilità sono due: se la genetica e l'imprinting educazionale non gli ha dato un animo libero e il relativo coraggio delle scelte autonome, non gli si può addebitare alcuna colpa; se invece il coraggio l'ha ricevuto per "eredità" o condizionamento culturale, in un'ottica di responsabilità familiare sarebbe opportuno che lo nasconda o lo usi con parsimonia, saggiamente contemperando le esigenze di tutela dei cari con quelle dell'esercizio di una libera cittadinanza.

Tanto per capirci: il diritto a essere piccoli e invisibili è legittimo e non tutti gli uomini sono fatti per divenire grandi o per accedere a "magnifiche sorti e progressive".

Ciò detto, vi sono alcune professioni per svolgere le quali è più difficile riuscire a mimetizzarsi nella massa e a essere "corretti" come Don Abbondio: mentre, ad esempio, per essere un buon medico basta attenersi al Giuramento d'Ippocrate, per fare buon giornalismo occorre praticare quella libera espressione del proprio pensiero e quella divulgazione ragionata del libero altrui pensiero che spesso presuppone il citato manzoniano coraggio.

Coraggio ma non incoscienza. Albert Camus nel 1939, a 26 anni, è redattore capo de Le Soir Républicain. Nonostante la sua giovane età scrive delle cose memorabili: anch'esse adattabili ai nostri tempi, sì da meglio specificare il concetto di libertà individuale in un ambiente illiberale e asfittico. Camus scrive che, dinnanzi alla marea crescente della stupidità e dell'immoralità, è necessario opporre qualche rifiuto e che non c'è coercizione al mondo che possa indurre una persona con un minimo di rettitudine morale ad accettare di essere disonesta intellettualmente.

Di fronte all'impossibilità di dire apertis verbis ciò che si pensa - ovvero di dimostrare quel manzoniano coraggio potenzialmente nocivo ai propri cari - si può comunque "non dire ciò che non si pensa", optando così per una libertà di pensiero in negativo, e usare l'ironia, "arma impareggiabile contro chi è troppo potente", per affermare le proprie idee ("Una verità enunciata in modo dogmatico viene censurata 9 volte su 10. La stessa verità detta scherzosamente solo 5 su 10").

Camus conclude affermando che "l'uomo libero è necessariamente ironico". Anche se in tempi truci è a malincuore che uno spirito libero si esprime con ironia, non v'è altro mezzo per affermare la propria libertà di uomo: "la virtù dell'uomo è di mantenersi tale anche di fronte alla negazione dell'umanità".

Concludendo, cos'è che oggi si rimprovera all'uomo comune e al nostro giornalismo? Non tanto il non aver quel coraggio se "se non ce l'ha, uno non se lo può dare", quanto piuttosto la mancanza di quell'ironia che consente di essere liberi e affrancati dalla banalità della consuetudine. Peccato veniale per l'uomo qualunque; peccato mortale per il giornalista.

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