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IL DOVERE DELL'IMPEGNO

Piccolo Manifesto del Laboratorio Politico SocietĂ  Aperta

 giovedì 19 gennaio 2017 - via Nicolò da Reggio n. 14 - ore 18

relazione del coordinatore del laboratorio politico SocietĂ  Aperta dr. Vincenzo Vitale

Cari amici, aderenti o sostenitori o semplicemente interessati alle attività del laboratorio politico Società Aperta, mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione, prima di entrare nel merito di questo scritto, uno stralcio del documento conclusivo di un’iniziativa tenutasi il 12 novembre del 2010 in occasione della costituzione del laboratorio politico Città Libera, poi rinominato Società Aperta in omaggio a Kark Popper alla cui filosofia politica è sostanzialmente ispirato il think tank.

Questo incontro, dal titolo “Libertà civili e diritti costituzionali”, si tenne nel Salone dei Lampadari di Palazzo san Giorgio e, coordinati dallo scrivente, ebbe per relatori il compianto prof. avv. Vincenzo Panuccio, presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Mediterranea, e il prof. dott. Antonino Monorchio, presidente dell’associazione Mediterranea Rhegion, promotrice della Fondazione Mediterranea da me presieduta.

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«Se si potesse adottare una sola parola a ideale icona di questo laboratorio, questa sarebbe "sincretismo". Dall'accezione sorgiva relativa alla conciliazione di elementi culturali e filosofici appartenenti a più dottrine e religioni, il termine nel nostro caso verrebbe applicato alla politica: incontro e fusione di idee e programmi di diversa estrazione ideologica e partitica. Anche l'etimo ci sorride. Derivando dal greco synkretismos, letteralmente "coalizione cretese", il termine fu usato per la prima volta da Plutarco per indicare a esempio Creta, i cui abitanti avevano messo da parte le differenze e distinguo per unirsi contro nemici e avversità. (Una chiara indicazione, quindi, a voler pragmaticamente superare distinguo politici non sostanziali in un’ottica di ricerca del legittimo comune maggiore interesse).

Programmi e obiettivi del laboratorio politico discendono da alcune parole chiave che ne sintetizzano l'essenza: 

1) sincretismo (come giĂ  detto, incontro e fusione di idee e programmi di diversa estrazione ideologica e partitica);

2) laicitĂ  (indipendenza di pensiero da ogni condizionamento ideologico o religioso);

3) liberalismo (limitazione dell'intervento pubblico con promozione della libertĂ  e creativitĂ  individuale);

4) riformismo (modifica graduale dell'esistente senza brusche cesure o utopici progetti olistici); 
5) autonomia (oltre il senso etimologico di darsi le regole da se stessi: libertĂ  di scelte finalizzate al proprio maggiore interesse);

6) pragmatismo (conoscenza obiettiva della realtĂ  come strumento di un'efficace e utile azione su di essa che presupponga il superamento dei distinguo ideologici);

7) glocalismo (promozione di tradizioni e culture locali in un'ottica di integrazione economica e politica).

Insomma il laboratorio politico ambisce a essere una sorta di "Corporation Savante" (nel senso dato all'espressione da Auguste Compte) al servizio della Città Metropolitana: non un partito o un comitato elettorale bensì, non escludendo la possibilità di una sua azione diretta politica, ambisce a divenire un indipendente e oggettivo think tank che, analizzate le politiche pubbliche, sia in grado di indirizzarle.

Un'utopia? Può darsi, ma non dobbiamo dimenticare che, più che un nostro diritto, è un preciso e ineludibile dovere quello di tentare di dare una guida "illuminata" alla città metropolitana di Reggio Calabria».

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Ciò riportato, acclarata la possibilità che in linea di principio un cittadino “illuminato” può essere genericamente ampiamente d’accordo sui principi ispiratori di Società Aperta, ove si vogliano trasformare le enunciazioni di principio in un progetto politico da calare sul territorio, non avendo il Laboratorio Politico la forza sufficiente a movimentarsi autonomamente, sorge il problema di un suo posizionamento nell’attuale panorama politico italiano.

Dal punto di vista squisitamente ideologico, alcuni movimenti di ispirazione laica e liberale, tra cui quello creato un paio di anni fa da Giancarlo Fini, rispondevano a sufficienza alle nostre aspettative ma, forse anche per la ristrettezza del loro target, non sono sopravvissuti abbastanza per essere oggi presi in considerazione. Dopo la deludente esperienza del NCD, dilaniato peraltro localmente da feroci lotte intestine che ne hanno appannato l’immagine, e dopo la scelta di principio chiara e ineludibile a favore del NO alla riforma costituzionale Renzi/Boschi, superato pertanto il nodo manicheo del 4 dicembre, occorre – hic et nunc – fare una scelta.

Escluse le espressioni marginali e/o estremizzate e/o integraliste di militanza politica (Lega, Fratelli d’Italia, PCI), come anche quelle troppo negativamente personalizzate e con un costrutto identitario debole (FI, PD) o non sufficientemente strutturate (M5S), tutte forze con le quali comunque possono essere localmente attivate ad hoc temporanee joint, non resta che guardare – nell’oggi che viviamo – alla neonata Area Popolare, rappresentata in città dal sen. Nico D’Ascola.

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Permettetemi, prima di procedere oltre, una breve digressione, rappresentata da un mio significativo pezzo pubblicato a inizio 2017 su Facebook.

«Ne La Nausea di Jean-Paul Sartre, il protagonista Antoine Roquentin, trascrivendo dal Piccolo Dizionario dei Grandi Uomini di Bouville spezzoni di vita di Oliverio Blévigne (18849-1908), ne riporta un brano di discorso, che sintetizzo.

“Il Paese soffre d’una gravissima malattia: la classe dirigente non vuole piĂą comandare. E chi dunque dovrĂ  comandare, se coloro che per nascita, per educazione e per esperienza, i piĂą adatti a esercitare il potere, per stanchezza o per viltĂ  vi rinunciano? Il comando non è un diritto dell’élite: è il suo principale dovere. Occorre restaurare il principio dell’autorità”.

Ora, eliminando per ovvi motivi il “per nascita”, i concetti di fondo possono benissimo essere attualizzati e dimostrare la loro necessità: pensiamo a Reggio, all’abdicazione al potere da parte della borghesia (ovvero di ciò che ne rimaneva dopo la cesura del 1908) avvenuta nel secondo dopoguerra, alla gestione politica della città delegata a una coorte di affaristi truffaldini e stolidi contadinotti che si sono trasformati in un paio di generazioni in classe dirigente politica, di destra e di sinistra, perpetuando il potere fino ai nostri giorni.

Pensiamo a tutto questo e a chi “per educazione ed esperienza”, ovvero all’élite, ovvero alla parte di cittadinanza onesta e colta che è sopravvissuta alla diaspora intellettuale degli ultimi decenni, avrebbe non il diritto bensì il dovere del “comando”: dov’è? Rintanata nel suo particolare e dimentica dei doveri civili? O, meglio, terrorizzata dalla possibilità di finire stritolata tra mafia e magistratura, classico vaso di coccio tra quelli di ferro?

Eppure c’è questa élite: silenziosa, ma c’è. L’augurio che ci sentiamo di fare alla nostra città per il 2017 è che le persone “educate e di esperienza”, usando un linguaggio sartriano, vengano fuori e non abbiano paura di un’esistenza (azione politica) che, almeno in questo caso, secondo i dettami esistenzialisti, dovrà precedere l’essenza (l’essere borghese) e così definirla con un gesto di libertà e di ottimismo».

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Libertà e ottimismo sono i presupposti di un’azione politica che determini l’identità di chi la svolge, identità quindi non data una volta per tutte ma da definire nel tempo e nei luoghi a seconda di ciò che si produce e si crea.

La borghesia, pertanto, non si può definire a priori come élite ma solo a posteriori attraverso la sua azione politica: ovvero, non ci possiamo definire élite se non ottemperiamo al “dovere del comando” e se non si restaura il “principio dell’autorità” assumendoci la responsabilità del futuro.

Dice Karl Popper a proposito della responsabilità del futuro: «L'ottimismo è un dovere. Il futuro è decisamente aperto. Esso dipende da noi; da tutti noi. Dipende da quello che noi facciamo e faremo; oggi, domani e dopodomani. E quello che facciamo e faremo dipende a sua volta dai nostri pensieri; e dai nostri desideri, dalle nostre speranze, dalle nostre paure, da come vediamo il mondo; e da come valutiamo le possibilità largamente disponibili del futuro. Quando dico che "l'ottimismo è un dovere" non dico solo che il futuro è aperto ma che noi tutti lo configuriamo attraverso quello che facciamo: noi tutti siamo corresponsabili di quello che sarà».

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Cari amici, gentili amiche, se vogliamo essere élite nei fatti e non solo a parole occorre ripartire da queste considerazioni e, accollatasi la citata responsabilità del futuro, con il doveroso ottimismo della libertà ottemperare al nostro dovere di impegno. In altri termini, attraverso l’azione politica mirare a ottenere quel “comando” attraverso cui ricercare il maggiore interesse della collettività: ed è questo, in estrema sintesi, ciò che differenzia l’azione delle élite da quella dei portaborse e traffichini che pur dicono di fare politica: lavorare soprattutto per gli altri, naturalmente non perdendo d’occhio quelli che sono i propri legittimi interessi, che comunque politicamente coincidono con quelli della comunità.

Un’ultima, dolente, annotazione. I voti, ahinoi, si contano e non si pesano: se si pesassero avremmo le porte dei palazzi del potere spalancate per accoglierci. Contare i voti comporta l’obbligo di riuscire a confrontarsi anche con chi non si stima. Ed è sostanzialmente questa certa ritrosia a dialogare con chi non si apprezza, a volte né culturalmente né socialmente, che finora ci ha impedito di occuparci in prima linea della cosa pubblica abdicando al nostro impegno. Occorre quindi cambiare, sostenendoci vicendevolmente, per riappropriarci di ciò che abbiamo negligentemente trascurato nei trascorsi anni.